Il mio quarto viaggio in India è iniziato da Calcutta. Fiumi di parole sono state scritte su questa città, primo fra tutti, non cronologicamente parlando ma solo per la popolarità che le ha dato, Dominique Lapierre. Grazie a lui, Calcutta è diventata per antonomasia “La città della gioia“. Per chi non avesse ancora letto il libro, la città della gioia è, o meglio era, il più grande slum, ovvero, la più grande e popolosa baraccopoli che ha fatto da sfondo al romanzo del giornalista francese. Dico romanzo, perché alle realistiche descrizioni della città, si uniscono le storie romanzate di vari personaggi, dall’uomo cavallo al prete francese missionario, al medico americano in preda alle insoddisfazioni lavorative che ritrova se stesso dopo aver prestato il suo aiuto vivendo insieme alla popolazione dello slum e condividendo tutto, dalle latrine al cibo agli scarafaggi alle inondazioni al ciclone. Credo che tutti gli aggettivi del vocabolario italiano siano stati usati sapientemente da Lapierre per descrivere Calcutta.
Calcutta è l’India, ma è l’India che puoi ritrovare in alcuni luoghi del Rajasthan o a Varanasi. La vastità della città ed i suoi milioni di abitanti ti fanno sembrare tutto moltiplicato. A qualsiasi ora del giorno e della notte c’è sempre movimento. Calcutta non si addormenta mai.
Ma non è una sua prerogativa. In tutta l’India vedi sempre gente per strada, chi vende le cose più impensabili, chi mangia, chi rovista fra l’immondizia, chi dorme sotto le stelle, chi, come a Calcutta, ha fatto di un pezzetto di marciapiede numerato la sua casa. I più fortunati posseggono un quadrato di plastica a mo” di tetto o i più fortunati ancora hanno un bagno privato consistente in un residuo di specchio raccattato in non so quale immondezzaio o un mobile fatiscente come armadio. Forse rispetto a tutte le altre città dell’ India, Calcutta è più sporca, più caotica perché più popolosa, diciamo anche una delle più povere con un maggior numero di mendicanti per strada, di bambini senza neanche uno straccio addosso, una specie di “corte dei miracoli”.
Ma Calcutta è anche la capitale intellettuale dell’India. Ha dato i natali al premio Nobel Tagore famoso per le sue incantevoli poesie, è la culla del pensiero filosofico di Aurobindo e a tutt’oggi l’Indian Coffee House è il ritrovo dei pensatori, degli artisti, dei registi. Sembra strano che in un posto che stenta a sopravvivere, possano esserci un numero enorme di sale cinematografiche, più numerose che a Delhi e a Mumbai. Ma l’India è così, piena di contrasti, è bella per questo, perché non finisce mai di stupirti.
Arriviamo a Calcutta al mattino presto e siamo accolti da una terribile umidità che ti fa sudare ad ogni insignificante movimento. Stai bene solo in albergo, con l’aria condizionata che soffia forse più del necessario, albergo molto scenografico, poco lontano dal centro, raggiungibile in pochi minuti di taxi. Mi rifiuto di farmi trasportare dagli uomini-cavallo che trovi solo a Calcutta, la cui presenza è preannunciata dal suono di quel campanello il cui uso fu vietato da Gandhi, in quanto manifestazione di degrado sociale che annulla la dignità umana.
Ci facciamo lasciare dal taxi in prossimità dell’Howrah Bridge, un brutto ponte moderno costruito dagli Inglesi che congiunge le due sponde del fiume Hooghly, ramo del delta del Gange che prende tale nome prima di tuffarsi nel golfo del Bengala. Visto al mattino non mi ha particolarmente affascinato; con il calar del sole, invece, si trasforma, sembra di trovarsi in un girone dantesco…
Milioni di persone lo affollano, le più disparate, le più varie, le più strane, cariche di qualsiasi cosa, dalle pentole ai sacchi di fiori alle ceste in bilico sulla testa piene di masserizie non ben definite; la maggior parte si riversa alla stazione per ritornare ai paesi dopo il lavoro, altri al lume di flebili luci vendono ai bordi del marciapiede due banane, tre cipolle, un’arancia, oppure mercanzie di nessun valore, che mi chiedo chi possa comprare e quanti paisa possano rendere, forse giusto quelli per una manciata di riso.
Non riusciamo neanche a camminare, tanta è la gente, tantissimi i vecchi autobus inglesi dal tipico colore rosso, traballanti sotto il peso delle persone che si aggrappano alle pedane ed ai finestrini, tantissimi i risciò, le macchine, i carretti, le bici. E’ uno dei ponti più trafficati del mondo ed è entrato nel Guinness dei primati per il maggior numero di persone che lo attraversano giornalmente. Quasi fosse una zona militare, ci è impedito di fotografare, così come all’interno della metropolitana e della stazione ferroviaria, cosa non strana per l’India.
Insieme alla guida visitiamo, invece, il tempio della dea Kalì, chiamato anche Kaligat da cui Calcutta prese il nome. Coesiste pacificamente con l’Ospedale creato e voluto da quella suora mingherlina a nome Madre Teresa, che all’inizio venne vista dagli induisti come nemica, come colei che voleva “rubare” fedeli da convertire alla religione cristiana. Il tempio è dedicato alla dea Kalì, la nera, manifestazione cattiva di Parvati, moglie di Shiva, rappresentata con un coltello in mano, una collana di teste decapitate al collo, assetata di sangue. Ad orari prestabiliti, infatti, per soddisfare la dea, vengono sacrificati animali: li senti piangere, belare quasi implorassero la grazia… ma dalla morte, si ha la vita: in fondo al tempio sorgono le cucine dove vengono preparati pasti caldi da distribuire ai fedeli più indigenti che affollano ogni giorno il tempio per venerare la dea. E’ un po’ la legge della sopravvivenza. Qualcuno sostiene che questo è il vero tempio induista. Sarà, ma io non ho visto la gioia, la serenità, i sorrisi a cui sono abituata, anche perchè è uno dei pochissimi templi in tutta l’India dedicato alla dea Kalì: e dico meno male…
Due giorni a Calcutta trascorrono velocemente e dopo un breve volo interno, ci trasferiamo nella capitale dell’Orissa, Bhubaneshwar, che letteralmente significa “signore del mondo” uno degli epiteti di Shiva. Abbiamo giusto il tempo di visitare qualcuno dei 500 Mandir rimasti dei 7000 originari. Di architettura Nagara tipica di questo stato, singoli o raggruppati, sorgono intorno al piccolo lago Bindu Sagar.
Sicuramente il più bello è Lingaraj Mandir, dedicato al dio Shiva che nella sua versione di creatore ha come simbolo il “lingam”, che altro non è che il simbolo fallico. E’ uno dei luoghi di pellegrinaggio più sacro agli indù in quanto al suo interno è custodito uno dei 12 principali shivalingam, ma questo fa sì che l’ingresso sia assolutamente vietato ai non induisti. Ci accontentiamo perciò di ammirarlo da una terrazza improvvisata, dietro una piccola ricompensa.
A pochissimi chilometri dal mare e da Puri, sorge isolato il magnifico tempio di Konarak, dedicato al Dio Sole, rappresentato come un carro con 24 meravigliose ruote finemente cesellate, trainato da 7 cavalli. E’ stato costruito in una posizione talmente strategica da essere baciato dal sole il più possibile.
Ed eccoci a Puri, una delle città più sacre per gli induisti: qui si venera Jagannath, “il signore dell’universo”, uno dei nomi di Krishna, manifestazione terrena di Visnù, che la leggenda vuole imperfetto nelle fattezze. L’imponente tempio rosa e bianco di Jagannath, che qualcuno dice abbia custodito il dente di Buddha prima che fosse trasferito a Kandy in Sri Lanka, è interdetto anch’esso ai non induisti. A dimostrazione della estrema sacralità del luogo, si dice che l’accesso venne impedito addirittura ad Indira Gandhi, colpevole di avere sposato un parsi di Mumbai e di avere pertanto perso la purezza della casta.
Noi possiamo ammirare il mandir dalla terrazza della biblioteca, da dove vedi un brulicare incessante di fedeli, svolazzare come farfalle sari rosa confetto, verdi, gialli, rossi, azzurri in un tripudio di colori, fumare le grandissime cucine poste a sinistra dell’ingresso principale. Ci è concesso di fare il periplo e di sbirciare l’interno del tempio attraverso le 4 porte di ingresso,vegliate da grappoli di pipistrelli che ne hanno fatto la dimora fissa.
La vita intorno al tempio è incessante: lungo la via principale che porta al tempio un coloratissimo mercato attira milioni di persone, di personaggi straordinari che solo in India puoi trovare e che io fotografo in maniera maniacale quasi a voler emulare Raghu Ray. Ma anche se non sono all’altezza di cotanto fotografo, riporto in Italia un bel numero di foto “vive”, che ti trasmettono un non so che di magico, di mistico, addirittura guardandole sembra di respirare il profumo dei fiori, dell’incenso, del sandalo…
Puri è nota per le sue spiagge, ma anche per la presenza di un villaggio di pescatori, costituito da capanne sprovviste di servizi igienici. Gli abitanti vivono sommersi dall’immondizia, usano la spiaggia ed il mare come discarica e come toilette: gli uomini coperti solo da un perizoma, i bambini seminudi, le donne impeccabili nei loro sari multicolori, l’orecchino al naso ed il bindi in mezzo alla fronte, tirano a campare con il ricavato della vendita del pesce. L’unico tratto di spiaggia accessibile è a qualche chilometro da questo villaggio: anche qui è consuetudine allestire un mercato pomeridiano-notturno, con rivendita di pesce, frittelle e dolci in vecchi baracchini ridipinti in azzurro e bianco utilizzati dagli occidentali negli anni cinquanta come distributori di gelati da passeggio.
Da Puri con un altro volo interno ci trasferiamo in una città, Hyderabad, capitale dell’Andhra Pradesh che merita assolutamente di essere visitata. Non è la solita città indiana, ma un connubio di civiltà indo-araba-mussulmana. Ne è la prova la presenza di minareti, di moschee accanto ad immagini di Ganesha, Shiva, di donne coloratissime e di donne con il chador.
Che bellezza vedere questo miscuglio di nero mussulmano e di chiazze di colore, magari abbracciate tra di loro, in giro per il famoso mercato Charminar, chiamato da tutti con il nome dell’ enorme portale con quattro minareti costruito come talismano a protezione della città. Il mercato è un misto dei suk dei paesi arabi e dei bazar orientali, scintillante di braccialetti di vetro colorati, di monili arabeggianti accanto a tessuti e sete indiane, a perle, argenti, ottoni, profumi, spezie… Charminar è diventato l’emblema della città e ne ha varcato i confini, tant’è che il nome e l’immagine di questo “arco” appare sui pacchetti di una delle più note marche di sigarette e su antiche monete indiane.
Da Hyderabad in aereo ci trasferiamo a Goa, questa volta a North Goa, più famosa di South Goa, perché meta negli anni sessanta di artisti famosi e dei cosiddetti “figli dei fiori”, che della spiaggia di Anjuna hanno fatto un mito, il ritrovo degli hippy festaioli, il simbolo della droga e del sesso libero.
Oggi di tutto questo non è rimasto più niente. A cercare di far rivivere il mitico periodo, scovi qualche patetico ormai sessantenne, tatuato, con il codino, che tutti i mercoledì mattina si mescola ai goani, a donne in costume tibetano in un coloratissimo mercato, diventato ormai solo un’attrazione per turisti.
Spiagge incontaminate si estendono per oltre cento chilometri a nord ed a sud di Panagji che del piccolo stato di Goa è la capitale: spiagge bellissime, silenziose, orlate da palme ricurve, con deliziosi forti in stile portoghese, retaggio di tale dominazione. A Panagji sembra rivivere un pezzetto di Portogallo, con le case dipinte con colori pastello e le chiese cattoliche di un bianco abbagliante. Ma anche qui, l’India non si smentisce: accanto al crocefisso, trovi le offerte votive, il cocco, le banane, i fiori che sono esclusiva dei templi induisti.
La nostra ultima meta è Bombay, dove mi sembra di tornare a casa. Giriamo senza guida, ma non abbiamo nessun problema neanche ad entrare nel tempio di Mumbadevi, da cui il nome di Mumbai, affollatissimo quel giorno perché la festa di tutta la città e della dea che ne è il simbolo. I fedeli ci fanno largo senza chiedere nulla, solo perché capiscono che siamo turisti, anzi ci ringraziano di essere a Mumbai, ma soprattutto nel loro tempio. Ecco, in antitesi con il tempio induista di Calcutta, qui regna la gioia, la serenità, i fiori non sono rosso sangue, ma gialli, bianchi, arancioni, la gente sorride in fila ordinata sotto un sole cocente. Il tempio è situato nel cuore pulsante di Bombay, nel Chor Bazar, il mercato dei ladri, precisamente nello Zaveri Bazar, la strada dei gioiellieri, che qualche anno fa fu teatro di un attentato. Mi diverto a curiosare nelle varie botteghe stracolme di bronzi, ottoni, mobili antichi, statue e statuette delle loro divinità, provenienti o da case private o da templi. Ma non si tratta di furti, a dispetto del nome del bazar. Diciamo che ogni tanto le statue vengono rinnovate o, in occasione della puja, buttate in mare. Non posso fare a meno di acquistarne una di Ganesh, che oggi adorna un angolo della mia casa.
Visto che è già la seconda volta che soggiorno a Bombay, decido di scoprire la Bombay meno turistica e con gli altri ci facciamo accompagnare in taxi al Banganga Tank. Situato vicino al mare, è costituito da un bacino sacro per le abluzioni, circondato da tempietti dedicati a Shiva, Ganesh, Visnu, tutti pulitissimi, ricolmi di fiori. Ci fa da guida improvvisata un abitante del quartiere, che si meraviglia ogni qual volta riconosco il dio a cui è dedicato il tempio. Sgrana gli occhi quando gli regalo 50 rupie. Per loro è l’equivalente di quasi un mese di lavoro, per chi ce l’ha, per noi è poco più di una pizza margherita. Prende i soldi, bacia la moneta, ringrazia Shiva e congiungendo le mani ci rivolge un calorosissimo “namaste”, ancora incredulo per la fortuna che gli è capitata.
La cosa più affascinante di questo piccolissimo quartiere è la sua particolare collocazione in mezzo a grattacieli newyorkesi modernissimi, un’oasi di povertà in mezzo alla ricchezza. E questa ricchezza e questo lusso esplodono al Taj Mahal, albergo di Colaba situato di fronte al Gateway of India, cioè La porta dell’India. Oggi tale porta non è più il punto di arrivo e di ingresso all’India via mare, ma è il punto di partenza di varie imbarcazioni che in poco meno di un’ora ti portano all’isola di Elephanta dove è possibile ammirare 4 bellissimi templi scavati nella roccia tutti dedicati a Shiva.
Per tornare al Taj Mahal, che porta lo stesso nome del più famoso monumento dell’India fatto erigere ad Agra da un imperatore in ricordo di un amore bellissimo ma brevissimo, strana ne è la storia. Fu fatto costruire dal capostipite della famiglia Tata, industriali conosciutissimi in tutta l’India. Indispettito perché mandato via da un altro albergo in quanto parsi, lo volle il più lussuoso possibile a dimostrazione della sua potenza. Alla parte antica fu poi aggiunta una torre moderna non meno imponente del corpo principale: il panorama che si gode dai piani alti è incomparabile.
Un viavai incessante di gente anima il piazzale antistante il Gateway, carrozzelle con decorazioni pacchiane in argento ed oro sostano in attesa di turisti vogliosi di percorrere non con il solito taxi Marina Drive fino a Chowpatty Beach. Questa è la spiaggia più famosa di Bombay. E’ sconsigliata la balneazione ma è consigliata una passeggiata al calar del sole, quando indovini, contorsionisti, acrobati, venditori di paccottiglia, pulitori di orecchie, barbieri, mendicanti professionisti, gente comune comincia ad affollarla fino a tarda notte, consumando pasti caldi preparati nelle innumerevoli bancarelle ad apertura notturna. La spiaggia così si trasforma in una specie di fiera, un po’ come la piazza di Marrakech, e se se ne avesse il coraggio , sicuramente si potrebbero assaggiare i migliori pakora e i più deliziosi samosa, spuntini tipici indiani, o il miglior gelato al pistacchio che in lingua locale si chiama kulfi.
Trascorriamo l’ultima sera cenando in uno dei migliori ristoranti di Bombay, già sperimentato nel viaggio precedente, su segnalazione del proprietario di una “boutique”, boss della zona, che parla e comprende l’italiano.
Ritorniamo in albergo per recuperare i bagagli e ci troviamo nel bel mezzo di flash, di cineprese, di signore in sari di Benares con preziosissimi ricami che scendono da auto lussuosissime, di uomini vestiti all’occidentale sicuramente griffati: mi chiedo chi siano, se sia una festa in onore del più grande direttore d’orchestra indiano Zubin Metha, nativo di Bombay ed ora alla guida del “Maggio Fiorentino”, ospite dell’albergo con i suoi orchestrali. Chiunque siano, è come essere in un film, in un’atmosfera dorata, patinata, hollywoodiana, al di là della strada… la miseria.